CONFRERIE DES FELES DU GRAND COLOMBIER

( 1535 mt.)

4 Agosto 2007

Partecipanti: Simone, Luigi, Ivano

Resonconto: Ivano Vinai

 

Il Gran Colombier è un anonimo spuntone roccioso che si erge nel basso Giura francese, nel dipartimento dell’Ain, in Savoia, e obbliga il Rodano a girargli intorno prima di attraversare Lione, la seconda città di Francia. Il perché i suoi miseri 1535 m. assurgessero al prefisso di “Gran” credevo fosse riconducibile alla solita megalomania dei cugini transalpini; il vero e giusto motivo, invece, l’ho vissuto (volutamente) a mie spese.

 

Ho preparato un menù che prevede le scalate di tutti e quattro i versanti del valico posto a quota 1501. Per un totale di non tantissimi chilometri, 150, ma con un’esagerazione di dislivello totale: 4.700 metri. Una volta visti i profili altimetrici dei versanti, ho capito il vero senso sportivo di quest’impresa, dato che mi ero aggregato al volo senza troppo sapere. Nonché il perché di “Gran”. Il vero urto era rappresentato dalle pendenze. Nessuno dei quattro lati prescindeva da chilometri (plurale) dal 12% al 14%, e alcuni di questi tratti, data la percorrenza comune e parziale anche se su versanti diversi, andavano ripetuti due volte.

 

 

 

 

Ma è il primo versante il vero monster, quello di Artemare, che nella classifica delle 4.000 salite francesi più significative in base alla difficoltà si colloca tra le prime 15. Oltre al “solito” 14%, presenta lunghi tratti al 16%, altri passaggi al 19% e persino delle punte del 21%.

E’ piena estate, ma lungo la strada, poco oltre le 6:30, dalle nostre bocche fuoriesce del vapore acqueo. Pedaliamo all’ombra totale dell’imponente mole del Mont Colombier. Parlo al plurale perché sono con me due ciclisti milanesi: Simone Bianchi, giovane e agile scalatore che da subito dichiara “solo” tre salite, e Luigi Capellani, vecchio leone a rotelle, spelacchiato da più di mille colli e battaglie, ma che non ha perso gli artigli, anzi li arrota. Dopo 7 chilometri d’approccio, di salita moderata, c’infiliamo letteralmente nel bosco e…inizia l’inferno. Nei successivi 5 chilometri non scenderemo mai, ripeto mai, sotto il 10% e sino alla cima il ciclocomputer, al contrario, rimarrà asfitticamente inchiodato alla cifra singola nel display della velocità.

I miei rapporti sono da tripla micro-drive, mai così utili come oggi, ma ancora non do fondo alla massima agilità, perché il peggio è come il baffone di staliniana memoria: ha da venì!

Nel fitto della foresta di abeti, unici e muti testimoni delle nostre vicende, che ricoprono ora la strada d’inutile ombra, la temperatura cala a 11 gradi, ma l’energia profusa per vincere un iniziale 14% poi divenuto 16% su un traversone lungo e impietoso, non ci fa percepire quel freddo fuori stagione, ma le bocche sbuffano come geyser islandesi.

 

 

 

 

 

Dopo un tornantino, ecco una tranche da brividi al 19%. Qui la via è tortuosa, e la strada dà la netta sensazione di non andare da nessuna parte perdendosi nel bosco fattosi via via

sempre più impenetrabile. Preso da un inizio di allucinazioni da fatica, ad un tratto mi pare di vedere Cappuccetto Rosso col cestino in vimini. Finito quel segmento terribile, ci domandiamo tra noi se fosse quello il pezzo più duro. La risposta è

nascosta dietro ad un paio di curve poco più in là. Appare di colpo un muro d’asfalto che mette sgomento e s’inerpica nel fitto del bosco. Non posso pedalare da seduto perché la ruota anteriore non ha aderenza e rischio l’impennata ad ogni spinta di pedale. Il ciclocomputer è inchiodato a 5 virgola poco. Duecento-trecento metri più in su, una luce rompe il buio del tunnel della vegetazione in cui siamo calati. Quella luce che sancisce, forse, la fine di un incubo è a 300 metri, ma pare lontana come la Luna, nel frattempo, mi attraversa la strada il “Lupo cattivo”: ne sono certo!

 

 

 

Si sbuca finalmente su una radura quasi spianata, alla congiunzione con un bivio che segnala una discesa di 2,5 km al 14%. Ci rendiamo conto che si tratta della strada del quarto versante che Luigi ed io affronteremo in salita per ultimo e che svanisce dietro ad una curva con un’inclinazione sconcertante. Ci guardiamo in faccia attoniti. Volgendoci da dove siamo venuti, c’è un altro cartello che indica “discesa pericolosa 19%”. Ma salendo i nostri strumenti hanno rilevato entrambi il 21% netto! Mancano ancora 3 chilometri al Grand Colombier. Dopo il primo, di “recupero” (4,5%), si torna a salire duro, spesso in doppia cifra fino in cima. Il nostro riferimento dal basso è un’enorme croce ferrea (che funge anche da parafulmine), scostata dal Colle.

 

 

In una piccola depressione sbuca anche il sole per 200 metri ma poi è tutta ombra fino agli ultimi metri, questi, conquistati dopo 2 h dalla partenza, senza aver incontrato auto. Data la bruma all’orizzonte e tutt’intorno, al momento non c’è una gran vista da lassù, ma torneremo! La notevole fatica profusa per un solo versante, anche se il più duro, ci dà la misura di cosa ancora ci attenda in quest’impresa. Il vantaggio tecnico è che potremmo visionare la stessa salita che affronteremo, dopo averla appena percorsa in discesa. Lo svantaggio è che se ci si spaventa di cosa ci ritroveremo poi a fare in salita, lo dovremo portare come fardello psicologico. Ecco perché all’inizio parlavo di crape cocciute!

 

 

 

 

 

Dopo la foto di rito e mucche che ci ostruiscono la strada, timbriamo in una malga con rituale pausa per un tè. Si scende piano dal lato Est, scrutando, osservando ogni tratto, vivisezionando soprattutto la parte alta che, fino ad un altro bivio di separazione tra il 2° e 3° versante, avremmo poi dovuto ripercorrere altre due volte a salire.

Altro cartello 14% per 2500 metri posto prima del bivio, quindi sarà bissato anche questo troncone. Ecco la deviazione per Anglefort, giù a sinistra. Si cala male perché il fondo è gibboso, come molte strade di montagna in Francia, e si lavora molto di freni, vuol dire che in salita nulla ci sarà regalato, non lo dubitavo!

Tutti i commercianti di Anglefort, e anche degli altri paesi attorno al Grand Colombier, sanno del Brevetto permanente e timbrano volentieri la nostra carta di viaggio. Anche se non acquistiamo nulla non ci fanno mancare il loro “bon courage” ed un sorriso.

Mi viene in mente il proprietario (italiano) di quel bar in cima al Gran San Bernardo che, dopo aver consumato una fugace colazione, data la presenza di altri sopraggiunti clienti, si fece pagare a caro prezzo e poi si rifiutò di timbrarci la carta di viaggio del Giro del Monte Bianco pur di allontanarci il più velocemente possibile, peraltro con malcelato fastidio, erano le 7:30 del mattino. Per il nostro timbro ci rivolgemmo all’immancabile cortesia dei Carabinieri di frontiera. Che differenza d’approccio culturale alla bicicletta: un abisso!

La temperatura è ora gradevole, salendo s’inizia perfino a cercare l’ombra, per quanto finora non ci sia mancata. Questa, infatti, è un’ottima caratteristica del Grand Colombier. Non essendo troppo alto, concede se stesso attraverso fitti boschi, salvo gli ultimi 2 chilometri. Da questo lato l’impegno è discontinuo, e fin quando non si arriva al bivio già citato la foresta concede spazi al sole. Ma eccoci al segmento di 2500 m. al 14%. Per la verità non è tutto così, ma anche qui, la pendenza non scende mai sotto il 10%. In compenso trattasi di un traversone interminabile senza tornanti e con minime pieghe della strada, neanche curve. Ad un tratto, causa un ricordo infantile di Luigi, ci scappa a tutti da ridere, fino al punto da doverci fermare e proprio nel tratto più duro. Segno di buona condizione.

Quando si affrontano “sparate” come queste, certi segnali sono più importanti di quanto non si creda e l’esperienza per coglierli non mi difetta: bene!

L’ombra ora ci avvolge completamente nel fiabesco bosco che attraversiamo con pendenze ora divenute comode ma irregolari. Come detto, ne usciamo a poco più di 2 km dalla vetta. Noto che Simone, sempre in avanscoperta stenta a mantenere il suo solito ritmo, certo migliore del mio e di Luigi. Anche qui il segnale è chiaro: sta calando… in salita.

Rieccoci al Colombier, anche ‘sta volta dopo 2 ore d’ascesa. Alcune auto di gitanti sono ora presenti. Il panorama e vastissimo su Annecy, il suo lago, parte dell’Alto

 

Jura ma soprattutto, sullo sfondo le Alpi Pennine, dove domina la sagoma maestosa ed imperante del Monte Bianco e il suo massiccio. Spettacolo!

Il tempo di ricompattarci, vestirci e si torna a scendere dalla stessa strada, ma questa volta al bivio di metà discesa/salita, gireremo a destra per il terzo punto di partenza.

 

Esistono alcune località che portano nel nome il senso delle cose, o di ciò che ti aspetta. Esempio: ai piedi del terribile Mortirolo c’è l’abitato di Mazzo, capito? Il nostro terzo punto di partenza è nel paese tra l’altro il più carino dei quattro abbrivi, e dove abbiamo anche previsto una vera pausa. Per i francesi non è altro che il nome della località e basta, ma per noi tre è foriero di oscuri presagi: Culoz!

 

 

Dal bivio a destra percorriamo un tratto di un paio di km con scarsa pendenza e, dovendo poi risalire da lì ci chiediamo: dov’è la fregatura? Eccola! Altro cartello che indica 2500 m. 14% a scendere… e poi salire, tortuosissimi ed in più del tutto esposti al sole che poi sarà quello cocente del primissimo pomeriggio, insomma: benvenuti al terzo lato, quello di Culoz, un nome una garanzia!

 

 

 

 

 

Dopo la pausa di recupero, si evidenziano le difficoltà di tenuta di Simone, che lentamente perde metri. La pendenza è inizialmente accessibile, ma poi si comincia a risalire quei 2500 m. su inclinazioni molto dure, al sole, che ci fanno appena scorgere lo spettacolare lago di Aix les Bains poco più a Sud. La concentrazione è elevata, è il momento della verità.

C’è sempre un momento della verità e non ci si può distrarre da se se stessi, dallo sforzo che si produce, dal procedere lento ma inesorabile, costante ma dispendioso, faticoso ma risolutivo. Sappiamo di quel lungo quasi spiano che ci attende e poi il refrigerio dell’ombra del bosco, ma ora siamo lì, a farci il… Culoz, e non c’è requie.

Finalmente lo spiano e poi il bivio all’ombra. Salgo ora in coppia con Luigi, e il pensiero va agli altri 2500/14% sul traversone. Ed eccoci di nuovo, ma ‘sta volta non si ride.

 

Ritmo e fiato sotto stretto controllo della testa. Ci si sgrana ancora, sto bene, la velocità è 9, 8, 7 all’ora, a tratti anche meno, basta che si salga, che si mangino i metri di quell’indigesto costone, sarà l’ultima volta. E ancora una volta siamo fuori da lì, risbuchiamo dal bosco e giungiamo appaiati al Valico Luigi ed io. Sono le 15:30 ancora due ore dopo dalla partenza da Culoz, mentre la zona si è riempita di gitanti. Arriva anche il Buon Simon, che completa il suo percorso con noi accompagnandoci in discesa dal lato Ovest. Infiliamo alla destra quel bivio che vedemmo dopo l’uscita dalla prima tirata al 21%, anche quello col suo cartello 2500/14%. Siamo nuovamente all’ombra sparata. Al sole ci torneremo solo al primo abitato che incontriamo dopo essere appena usciti dall’ennesimo tratto “cartellato” che rifaremo in salita: 2000/14% con sconto di 500 metri. Oh grazie, che goduria!

Siamo in fondo per la quarta volta da dove ripartiremo solo più in due. Anche questo paese ha nel nome un segno del destino sperando che sia il nostro: Champagne en Valromey. Riuscendoci: cosa di meglio per festeggiare?

 

 

Questo è il lato più lungo: 19 km con una breve contropendenza iniziale che ci abbassa la quota dalla quale dovremo poi raggiungere il Gran Colombier per la quarta volta. Follia!

Dal fondo di quel fosso naturale scorgiamo la croce ferrea lassù in alto, lontana, piccola, tanto d’apparire la metà di questa “t” stampata sul foglio.

Si risalgono i minuscoli villaggi e ci s’infila, manco a dirlo, nel tratto 2000/14%, quello scontato; nel senso che era scontato che ci saremmo passati. Si sale con forza di gambe e di volontà equamente suddivise.

Ci si parla, quando si riesce, per ingannare lo sforzo profuso e noi stessi.

Il nostro costante sguardo all’insù a cercare la fine del tornante per poi trovarne un altro da completare è la prova più evidente che la strada sale senza… sconti. Fine del 2000/14%, si rifiata (manco fossimo sdraiati in spiaggia) su pendenze più umane, prima del tratto 2500/14% l’ennesimo: l’ultimo, ma alla fine anche questo colmato, muti e concentrati.

Alla famosa radura spianata, quella che incontrammo dopo la prima salita, a meno 3 dal Coronamento della nostra impresa, mi rendo conto che le mie energie sono state “gravemente” erose in quest’ultimo passaggio comunque molto duro. In quel km di falso piano che segue (4. 5%), pedalo sotto ritmo, tentando di recuperare il recuperabile.

Non dico niente a Luigi, ma quando la strada risale seria, dall’8 al 11% per gli ultimi 2 km finali, m’accorgo di essere alla frutta. E’ la nemesi tipica da vicinanza del traguardo. Fatalmente ci si rilassa e la pedalata si appesantisce, non stavo male, ma le gambe erano in debito. A meno 300 metri, scorro sotto la croce che vedevo da lontano. Con la gente lì vicina in piedi direi che a occhio è alta una dozzina di metri, altro che mezza “t”.

Dopo le ennesime regolarissime due ore d’ascesa, nel tardo pomeriggio, dietro la linea di scollinamento del Gran Colombier, con la lentezza del mio procedere, come emergesse dall’asfalto, sbuca la sagoma lontana del Monte Bianco: che meraviglia!

 

Ed in più: E’ FATTA!

Ci complimentiamo vistosamente tra noi, e ciò non passa inosservato. Sarà per l’ora, sarà per le nostre facce, s’avvicina un gruppuscolo di persone che dicono essere anche loro ciclisti, ma non della zona e chiedono informazioni in genere ma anche del perché noi ci si feliciti così. Spiegato, le loro bocche restano aperte e mute per qualche secondo, e gli occhi sbarrati più dei nostri, inondandoci poi di generosi e sinceri complimenti.

Ammetto che il mio cuore è gonfio d’orgoglio e sono anche un po’ imbarazzato da tanto calore. Penso che miglior ed insperato epilogo non potesse esserci.

 

4 versanti del Gran Colombier, 8 ore e 70 km di salita anche con pendenze da ribaltamento. Pardonnez moi monsieurs se scendo giù, ma sono un po’…stanchino.

 

Ivano VINAI -  Agosto 2007